Dicembre 2022 – Misþyrming

 

Non si può certo dire che il 2023 sia partito male da queste parti. Tutt’altro – ma per quanto strano possa sembrare rimandare il discorso, ormai giunti al primo mese della nuova annata ormai quaso conclusosi, la verità è che mancava ancora un piccolo ma significativo tassello nella trattazione del 2022, il quale, tra gli alti e bassi già evidenziati altrove, di soddisfazioni ha saputo regalarcene comunque tantissime.
Dunque che tutto di quel che fu sia, e che si chiuda oggi con il meglio di dicembre: l’ultima mensilità dello scorso anno ha visto tornare multiple nomine per ognuno dei dischi inclusi in trattazione e proposto dagli sgherri oscuri di queste pagine virtuali come non accadeva da qualche tempo – qualcuno di questi album già trattato più ampiamente di così in La Gente Deve Sapere (troverete come sempre un estratto e il rimando proseguendo nella lettura), un altro no, ma tutti vengono oggi saggiamente riproposti e rianalizzati per l’occasione anche dal resto della redazione oltre che dal sottoscritto, per avere una coralità d’opinione sicuramente più interessante. Un riepilogo per qualcuno, quindi; un piacevole motivo (ne servisse uno) per rimettere mani e soprattutto orecchie su “Með Hamri” (Norma Evangelium Diaboli, come dovreste sapere) degli islandesi Misþyrming, che hanno fatto comprensibilmente il botto nelle top 20 di fine anno, seguito da quegli altri tre dischi che già avete visto spopolare quasi altrettanto nella doppia decina di selezioni effettuate per l’appunto da ognuno dei quattro che prestano le loro parole alla causa in questo articolo. Per tutti gli altri, un monito ed una domanda: cosa state aspettando ancora?

 

 

[…] Con la pubblicazione di “Með Harmi”, quella che è indiscutibilmente e ormai senza particolarmente degni rivali la migliore band d’islanda attualmente in circolazione riporta […] nel Black Metal qualcosa che forse, al netto di infiniti altri e non meno importanti risultati, mancava da un po’ di tempo: una certa sfrontatezza priva di età, pietà e compassione alcuna; un certo mento alto che possa trasformare quella trascendente introspezione ormai connaturata e codificata in un genere di musica il quale chiaramente, sempre più, è qualcosa che va ben oltre l’essere un solo genere di musica, in quel guanto di sfida che abbia dentro davvero quel pesantissimo pugno di ferro – che suoni davvero indistruttibile quanto un martello che ha i contorni aurei della leggenda purché maneggiato da chi lo sa far librare come una verga d’infinita leggerezza e splendida, voluminosa arroganza riservata all’élite. Ai Misþyrming del 2022 è del resto riuscito proprio questo – di rendere, insomma, il Black Metal nuovamente un po’ più arrogante: perché si può e pertanto deve arrogare il diritto necessario di essere il suono di una dichiarazione di guerra aperta, di sangue, fuoco e morte a tutto ciò che non è vero. A tutto ciò che è falso, pretenzioso e infido, la cui testa è servita post-mortem in “Með Harmi” in una smorfia atroce su un vassoio d’argento, mentre il mondo brucia […].”

[Leggi di più nella recensione che lo elegge disco della settimana, qui.]

Se già “Algleymi” aveva ribadito con forza come la via islandese al Black Metal venuta in auge da circa una decade fosse fin dal principio soprattutto merito e appannaggio dei Misþyrming e dell’instancabile D.G., “Með Hamri” si presenta come la definitiva consacrazione a livello internazionale di un progetto che ad oggi suona esplosivo, esiziale e apocalittico come nessun altro: i cieli tempestati si muovono fra burrascosi incastri armonici e detonazioni di rancore, in un songwriting che anche addensandosi di nere minacce Dark Ambient sottolinea e sferra ogni singolo passaggio con la muscolarità di fragorosissime frustate a cordofoni e pelli. Facendo propri alcuni degli espedienti più esaltanti e perversi degli invalicabili altari Norma Evangelium Diaboli ma rimanendo saldi a quella loro fisicità tremendamente terrena, lorda di fango e costellata da ardenti fumaioli, gli islandesi calano la loro terza e definitiva sentenza con gli occhi iniettati di sangue e la spavalderia cieca di chi sa che il proprio inno di battaglia farà tremare le ginocchia al mondo intero.”

Senza stravolgere quanto fatto nel precedente disco, gli islandesi Misþyrming si presentano con un nuovo lavoro andando a raffinare alcuni dettagli in termini di produzione e composizione riuscendo a fare un ulteriore salto in avanti verso l’eccellenza. “Með Hamri” è un disco solenne, epico, ricco di profondità in ogni suo frangente, sia che si tratti di un breve intermezzo tra due canzoni, sia che si tratti di una sferzante cavalcata o di qualche momento più rallentato dove gli aspetti più dissonanti della band vengono splendidamente messi alla luce. La progressione che avviene traccia dopo traccia è affascinante, si può infatti notare l’aggressività dei minuti iniziali venire soffocata verso sonorità più lente ed introspettive fino a culminare nella conclusiva “Aftaka”, canzone che pone in risalto l’intero bagaglio compositivo e la crudezza delle liriche che contraddistinguono i Misþyrming. In attesa di sentire come si evolverà in futuro questa splendida creatura islandese non lasciatevi assolutamente sfuggire ogni minuzioso dettaglio del qui presente “Með Hamri”, perché al giorno d’oggi di questo livello ne fanno veramente pochi.”

“Se nel business del metallo nero lo scorso decennio aveva visto la dominazione pressoché incontrastata dei Mgła, dopo una simile dimostrazione di forza nulla vieta di pensare che quello attualmente in corso sarà alfine reclamato da questi gagliardi trentenni islandesi. Nessuno come loro, specie tra le leve relativamente giovani, sembra in grado di uscirsene con un sound così dinamico, immediato e per certi versi assai Rock pur rispettando alla lettera ogni convenzione del reame estremo: e mentre “Algleymi” metteva in mostra tutta la classe dei Misþyrming nella composizione di elettrizzanti cavalcate maggiormente melodiche, “Með Hamri” gioca invece con le ben più sinistre suggestioni operistiche portate di tanto in tanto dai sibillini ottoni e cori, unendole a brani che d’altra parte hanno mantenuto tutta l’esplosività del breakout datato 2019. Come detto è ancora presto per parlare di veri portabandiera negli anni a venire, ma è altrettanto vero che tra i loro coetanei questi quattro vandali non hanno al momento rivali, in particolare se si tratta di traghettare i meno addentrati dai grandi totem del genere alle sue migliori correnti contemporanee.”

Il secondo di dicembre che già avete visto fare en plein di gradimenti nelle selezioni di fine 2022, vale a dire “Aamongandr” dell’infamous collettivo che risponde al nome di Satanic Warmaster e al volere del tiranno d’altri tempi Werwolf. La copertina dice moltissimo ma non tuttissimo, benché valga l’acquisto da sola per chiunque dotato di buon gusto; quindi correte a farlo vostro, perché ne troverete pochi di dischi usciti così lungo l’anno scorso come nel 2023…

[…] Ma quel che conta in fondo è che con “Aamongandr”, Werwolf non si riconfermi quindi soltanto uno dei più affilati e ferventemente intuitivi compositori di musica nera dell’intera Finlandia – questo non sarebbe poi, a ben vedere, considerabile un chissà quale traguardo qualora tenuta in considerazione la quindicina d’anni abbondante ormai trascorsa dall’ancora oggi acclamatissimo “Carelian Satanist Madness” […]. Quel che “Aamongandr” fa è piuttosto superare in continuazione le sue stesse gesta con un grande, vampiresco balzo, con l’agilità ritmica e la squisitezza melodica di una fiera e che lo contraddistingue e separa da ogni altra prova ad oggi firmata Satanic Warmaster, non solo mescolando come evidenziato le carte in tavola in maniera sorprendente, ma portando l’intero mazzo con sé su nuovi sentieri che sanno di un futuro passato, di una grandezza che -in quanto tale- è materia sempre malleabile nella mente di chi la comprende, squisitamente personale come conseguenza inevitabile e pertanto senza tempo […].”

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Le stoccate secche e taglienti di “Fimbulwinter” si intingono in un crogiolo cangiante di venature dorate che tramutano quella vaga tendenza ad un folklore per lo più arido in un’epicità fatta di bellicose cavalcate al fulmicotone dalla tonante pienezza sinfonica. L’approccio dalla verve Heavy Metal e il suono nel complesso più organico non vanno a discapito di un’aggressività sempre a nervi tesi e fauci scoperte sottolineata dalle vocals di Werwolf che, ergendosi sprezzante in tutto il suo fervore, orchestra a suon di acido e rasoio il putiferio finnico che divampa nei sei brani del disco; tracce che, fra la potenza cinematica di “Duke’s Ride”, il tiro sanguigno di “The Eye Of Satan” e i rintocchi glaciali di “Barbas X Aamon” in una caratterizzazione che vede cruciale il magico tocco di un Trollhorn finalmente al pieno comando delle tastiere, dimostrano una varietà tale da rendere “Aamongandr” un ascolto continuamente ripetuto, esaltante e sempre ricco di dettagli.”

Aamongandr” è proprio come ce lo si aspettava, ma con qualcosa in più: senza fronzoli, crudo e diretto, reso ancor più tagliente da degli inserti sinfonici che confezionano l’ennesimo buon lavoro targato Satanic Warmaster. La creatura di Werwolf prosegue dall’ottima base derivante da “Fimbulwinter” regalandoci un prodotto sincero che non può non emozionare gli appassionati del Black Metal più tradizionale arricchito di personalità. Gli arrangiamenti che compongono le sei tracce del disco sono particolarmente ispirati e l’atmosfera gelida e maligna che si espande minuto dopo minuto può solo farci chinare il capo verso una band che dopo vent’anni abbondanti continua a non scendere a compromessi.”

“Messe a riposo anche solo momentaneamente le decine di emanazioni parallele della sua singolare (quando non a volte proprio confusionaria) vena creativa, il buon Werwolf ritorna a giocare pesante rimettendo a nuovo la creatura che lo ha reso attore protagonista dello scenario finlandese da oltre un ventennio a questa parte. Per l’occasione, oltre ad un manipolo di personaggi ben poco raccomandabili pronti a dar manforte eliminando qualsivoglia sciatteria esecutiva, la scrittura continua ad affinarsi sovrapponendo all’incontaminato Black Metal specialità della casa un pochino di sana baraonda epicheggiante, favorita da riff memorabili così come da tastiere sempre in metamorfosi per afflato atmosferico. Il Burzum che sogghigna durante la solenne conclusione va pertanto a braccetto coi Manowar tributati dalla copertina dell’appena scomparso Ken Kelly, secondo una visione (non soltanto) musicale la quale ha fatto tesoro di ogni singolo split e compilation messi sul mercato da Lauri Penttilä, e che adesso restituisce la più alta vetta finora conquistata dalla controversa entità di Lappeenranta.”

Segue il primo di due del dodicesimo mese che avete già trovato in doppia nomine nelle top: “Innermost” degli Hate Forest, dall’Ucraina con tutta la solita maldisposizione di questo ed altri mondi, di nuovo fuori per Osmose Productions dopo “Hour Of The Centaur”, è un altro album che difficilmente vi pioverà addosso come uno di cui non avete ancora sentito parlare. Ma dovreste, motivo in più, assaporare con attenzione tutti gli aspetti sia inediti che inaspettati di cui vive…

[…] Ma va ad onor del vero detto che nei solchi quasi impressionisti, crudelmente algidi di “Innermost” non vi è nessun tepore, nessun calore. […] Vi è la nerezza celata all’interno del tempio della grande, eterna notte dell’anima e della contemplazione dal di dentro di quel bianco silenzio accecante ed annichilente del sé che stimola la percezione come risposta, la meditazione sull’esistenza, e su tutte le domande con cui riflettere nella solitudine di uno stellato mese di morte e rinascita come dicembre: non a caso quello che apre le porte dell’inverno dentro e fuori, e su cui anche coloro i quali ululano e rispondono devastati nel corpo ed indomiti nell’anima all’interno dell’uragano di neve, pur bissando il successo strepitoso di “Hour Of The Centaur”, sembrano non avere ancora alcuna risposta possibile. Perché vi è tutto ciò di fronte a cui è necessario chiudere gli occhi per poter vedere […].”

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La tempesta impetuosa di lance e frecce acuminate che risponde al nome di Hate Forest irrompe un’altra volta a scuotere il gelo dell’inverno, diradandosi apparentemente quel tanto che basta per mostrare un rinvigorito spirito melodico che, in guisa di infido accompagnatore, prima ammalia l’ascoltatore e poi lo ghermisce in tutta la sua brutalità. Laddove la ruvidità oltranzista e mossa dalla più antica feralità che contraddistingue il progetto non arretra di nemmeno un passo, questa trova al contrario nuovi spiragli e inediti modi di spiccare ancora di più quando contornata di cromie misteriose e sprazzi di illusoria requie: dal nero profondo della più lunga delle notti baluginano le visioni di una paganità sofferente e cruda, che si rivelano a sprazzi fra le trame fitte imbastite dal guitar working. Con “Innermost” gli Hate Forest dimostrano insomma che “Hour Of The Centaur” non era affatto un fuoco di paglia e che il più longevo e temibile progetto di Roman Saenko è tornato più minaccioso, ispirato e in forma che mai.”

Tutto si chiude sulla nota malinconica di commiato messa in musica da maestri di una tale espressione. O meglio, del maestro D. rimasto solitario demiurgo del progetto Woods Of Desolation in silenzio dal 2014 di “As The Stars”, oggi coadiuvato dal batterista dei Drudkh. “The Falling Tide” (Season Of Mist) è una rétro-marche stilistica verso il regno “Torn Beyond Reason” – da non confondere però con cedimenti qualitativi per Kirves ed Ordog.

“The Falling Tide” rappresenta uno di quei rari casi in cui la somma di scelte e perfezionamenti che singolarmente appaiono discutibili o addirittura contraddittori finiscono per donare una nuova forma espressiva ad un’equazione delicata e consolidata: ridurre lo strato di rumorismo lo-fi in favore di una produzione più netta e cristallina, mutare le incursioni vocali ad un timbro più gorgogliante e meno tagliente sono espedienti che rischiano di compromettere la formazione del delicato strato atmosferico per un progetto come i Woods Of Desolation; ma quelle increspature fumose e graffiate dai forti contrasti si attenuano qui in sfumature più tonde e turbolente, in un fluire torrenziale dal fine layering. Le variazioni minute ma intense si amplificano così facendo e trovano una loro vitalità fra il dinamismo di un inedito tappeto ritmico e fra le pennellate celestiali e bluastre delle tastiere, in una nuova dimensione di quell’inconfondibile sound rimasto voluminoso e sognante.”

“Per certi monicker non conta cambiare direzione e mutare identità, quanto più rimanere capaci nonostante lo scorrere del tempo di saper premere gli stessi tasti ed accendere così le medesime sensazioni nei cuori degli autentici iniziati, disposti in nome di quel preciso attimo di attendere anche otto lunghi anni. A differenza di quanto occorso ad altri nomi di culto ingiustanente risvegliati dal letargo per mano del colosso francese, “The Falling Tide” si approccia con deferenza ai trascorsi del suo autore e ne ripercorre i mille sentieri, per una mezz’ora abbondante al di fuori di qualsiasi catalogazione cronologica. La disperazione delle vocals, la rabbia dei pattern batteristici e la malinconia dei lead sono stati d’animo innati in noi tutti, e che act come quello australiano hanno il compito di tirare fuori a riprova della loro come della nostra fallace, meravigliosa umanità; nei suoi continui scambi tra movimento, quiete, inizio e fine tutti ritratti in un artwork sinceramente mozzafiato, l’album perfetto per un dicembre già magistrale.”

Due cose sono più che certe a questo punto: i quattro album appena proposti evidenziano un’ennesima volta come valga sempre più la pena e sia sempre più cosa dovuta aspettare la vera ed effettiva fine di un anno per stilare qualunque (già di per sé piuttosto sterile) considerazione opinionistica sul valore di un’annata che include -va da sé- anche l’ultimo o gli ultimi due mesi, a maggior ragione se a questi sproloqui si accompagna una listarella lunga o corta di dischi più apprezzati e consigliati a chi per qualche strana ragione ancora legge spazi come il nostro. Se sono infatti consigli e scoperte che questi lettori e compari d’armi vanno cercando dalle webzine e da chi ha il coraggio di chiamarsi stampa specializzata invece che carta patinata da gabinetto votata a musica tutto sommato abbastanza strana, allora siamo tenuti a fare del nostro meglio per mettere la curiosità prima dell’osservanza di scadenze (non dovrebbe essere tanto difficile!); di essere onesti e personali fan prima che critici incapaci. Divulgativi ed appassionati piuttosto che in gara di velocità con altri ciechi pronti a schiantarsi contro lo stesso muro di gloria social.
Ma ne abbiamo già parlato fin troppe volte, e glissare al riguardo per il momento ci porta alla seconda evidenza che ci fa inoltre guardare avanti con l’entusiasmo dovuto: rispetto al pressoché inesistente gennaio 2022, questa novella mensilità gemella che si chiuderà nel giro di un altro giorno soltanto ha fatto quelle faville vere che questo genere di musica brama più di qualunque altra cosa. Che dunque siano i “vecchi” alleati come quelli in questo articolo già rispolverati, in un’era dove la polvere si deposita fin troppo in fretta su ogni cosa, a rimanere al nostro fianco mentre entriamo con forza nel pieno del nuovo anno con gennaio – per la cui tirata di somme non ci faremo attendere un mese come questa volta, e i cui campioni sono infatti già stati scelti dai vostri redattori preferiti proprio mentre finiamo di scrivere queste parole…

 

Matteo “Theo” Damiani

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